La narrazione genera realtà
Sono sempre stata attratta fin da bambina, ad ascoltare le persone. Ricordo che rimanevo in silenzio, affascinata dai racconti, ai quali credevo pienamente. In particolare ricordo quando nella mia ingenuità del tempo ho chiesto a mio zio come mai avesse perso i capelli, e lui con ironia mi ha risposto: «ho perso i capelli andando in vespa!». Io ci ho creduto e mi immaginavo che finché sfrecciava con la sua vespa beige, pian piano lasciasse una scia di capelli sull’asfalto; un po’ come Hansel e Gretel con le briciole di pane. Oggi a ripensarci sorrido e mi appare chiaro quanto sia vero che la narrazione generi realtà.
Rifletto e condivido un pensiero che ritrovo quotidianamente e cioè, quanto sia importante porre attenzione a come comunichiamo e a come l’altro comunica con noi.
Cosa vogliamo suscitare nel nostro interlocutore? Cosa l’altro vuole attivare in noi?
Sono domande che mi pongo sempre quando, al di là del lavoro che svolgo, incontro persone. Quando chi incontro mi riempie il racconto di imprese eroiche, di obiettivi superlativi raggiunti, di quanto lui/lei sia un essere speciale, mi chiedo “chi sono io per lui?”. Uno specchio per fargli un applauso probabilmente. “Quanto questa persona è realmente interessata ad avere un dialogo con me?”. Dialogo appunto e non monologo.
Vale lo stesso per chi, al contrario, racconta la sua vita passata o attuale solo correlata a sfortune, tragedie, come se sentisse la necessità di attivare in me compassione e accudimento.
Poi c’è chi racconta la sua vita ostentando “il bene che fa”; e allora mi domando, “perché ha bisogno di ostentare, di mostrare, di dire?”. Probabilmente gli altri sono solo un mezzo che usa, nascondendo le sue azioni con un’aura di benevolenza, perché questo lo fa sentire accettato dagli altri; ma in fondo ciò che comunica come atto benevolo è probabilmente un’espressione narcisistica.
Chiedersi cosa l’altro vuole comunicare con le parole che sceglie, con la ricchezza o meno dei dettagli, con la magnificenza del racconto o la tragicità di esso, ci aiuta anche ad avere un pensiero critico rispetto al contenuto che l’altro vuole trasmettere. Ci aiuta in qualche modo a non prendere per oro colato ciò che l’altro dice, piuttosto a “vedere oltre le parole” e fidarci un po’ anche di ciò che sentiamo.
La narrazione genera realtà, perché a seconda di come raccontiamo, la nostra storia prende forma, colore, emozione, e costruisce nello spazio mentale dell’altro uno spessore. Saper decodificare il messaggio, ci aiuta anche a capire i bisogni dell’altro; ascoltare come comunica e non soltanto cosa comunica, ci aiuta a comprendere molto meglio dove vuole riporre l’attenzione, e ci può pertanto indirizzare a non rimanere intrappolati in forme che sono dissonanti rispetto ai contenuti.
Questo si rivela spesso importante quando iniziamo una relazione sentimentale. “Come” si racconta l’altro? È un indizio al quale porre attenzione, perché le persone spesso si palesano subito con i loro costrutti di base.
Certo quando incontriamo una persona che attira la nostra attenzione, siamo portati a mostrare la versione migliore di noi; ma quanto questo ragionamento lo sta facendo anche l’altro? E se nelle sue parole — che ai nostri occhi sono realtà — ci fosse una buona quota di annebbiamento emotivo? Sapere vedere “oltre”è una competenza sociale che si acquisisce, che si allena, non certo sfociando nella paranoia, o nel pregiudizio, o nella diffidenza a prescindere, ma addestrando il pensiero critico soggettivo, che rappresenta una parte sana di ognuno di noi — ahimè spesso poco conosciuta anche a noi stessi.
«Tutto ciò che sentiamo, è un’opinione, non un fatto. Tutto ciò che vediamo è un punto di vista, non la verità»,
Marco Aurelio
Fateci caso!