Il 13 novembre ricorre la Giornata mondiale della gentilezza, nata dall’iniziativa di gruppi umanitari e dalla loro Dichiarazione della Gentilezza risalente al 13 novembre 1997, osservata dal ‘98 da Canada, Giappone, Australia, Nigeria, Emirati Arabi Uniti; dal 2009 da Italia, India, Singapore, e dal 2010 da Gran Bretagna.
La gentilezza, disse l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità. Nell’immagine che abbiamo degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione. La gentilezza è diventata un piacere proibito. Perché essere gentili può essere rischioso? A cosa ci espone?
«Un indicatore della salute mentale», scriveva Winnicott nel 1970, «è la capacità di entrare nei pensieri, nei sentimenti, nelle speranze e nelle paure di un’altra persona, e di concedere a un’altra persona di fare lo stesso con noi». Prendersi cura degli altri, come sosteneva Rousseau, ci rende pienamente umani. Dipendiamo gli uni dagli altri non solo per la nostra sopravvivenza, ma anche per la nostra esistenza. Una persona non può esistere in equilibrio se privata di legami affettivi o interconnessioni sociali.
La società moderna occidentale invece oggi mette l’indipendenza al di sopra di tutto. Avere bisogno degli altri è considerata una fragilità e viene legittimata solo se ad essere coinvolti sono i bambini, le persone malate o anziane. A loro sembra essere concesso di poter dipendere da qualcuno senza sentirsi colpevoli, fragili o manchevoli di autonomia.
Ciò che l’essere umano oggi si racconta è di essere autonomo. Dico esattamente “si racconta” perché è un buon alibi, ben lontano dalla visione più profonda dei nostri processi relazionali. Ognuno di noi ha una quota di dipendenza che agisce nei rapporti umani, in quanto l’uomo, anche il più stoico, ha bisogno di stare in relazione con un altro per trovare senso alla propria esistenza e per trovare appagamento e riconoscimento ai suoi bisogni emotivi.
Secondo alcuni teorici dell’evoluzione il dna delle persone gentili ha grandi possibilità di riprodursi; e i neurologi riscontrano un’attività più intensa nel lobo temporale posteriore superiore del cervello degli altruisti.
Essere gentili quindi conviene.
Fa bene alla salute globale e crea intorno a sé un clima positivo e sereno. In questo periodo storico di “freezing relationships”, di individualismo spinto, appare un miraggio che qualcuno mostri gentilezza verso di noi. È alquanto disarmante ascoltare che le persone provino stupore quando qualcuno è gentile con loro, come se la cosa più anticipabile sia l’egoismo, l’individualismo, il fregare l’altro, e ciò che si discosta da questo atteggiamento, come la gentilezza, viene invece vissuto con meraviglia.
Credo siamo di fronte ad un processo che dovrebbe, in natura, essere diametralmente opposto. Ma come siamo finiti fin qui?
Responsabilizzare la “società” è un buon alibi dato che è composta di persone e quelle persone siamo noi. Pensiamo un secondo all’ultima azione gentile che abbiamo fatto. Cosa ci ha spinto a farla? Che rischio ci siamo assunti? Perché spesso è preferibile muoverci pensando a noi e non tenendo conto dell’altro?
Il nostro telefono ci mette sul piatto ogni settimana quanto tempo passiamo con lui, un oggetto che traduce relazioni. Ma è proprio così? Le relazioni oggi sono così fredde e spersonalizzate: usiamo telefoni per parlare con qualcuno e una voce digitale ci presenta un menu di opzioni che traducono o comunicano come ci sentiamo. Sarà un caso che mai come oggi però assistiamo ad un aumento epidemico di depressione e attacchi di panico, e ciò che sento forte anche dai miei clienti, è l’esigenza di un ritorno al calore relazionale, al senso di appartenenza e il bisogno di evitare il più possibile l’isolamento.
La scienza oggi ha dimostrato che alla nascita abbiamo tutti un gene della gentilezza. Siamo una specie in cui gli individui hanno bisogno gli uni degli altri per sopravvivere; portiamo un’impronta biologica di questo fattore. Pensiamo al fatto che l’uomo è un mammifero e che non può sopravvivere senza la cura e il nutrimento di un altro. La cooperazione è stata decisiva affinché l’essere umano si evolvesse.
Credo che una buona alfabetizzazione emotiva possa portare e ri-portare le persone a “guardare l’altro”, a sintonizzarsi emotivamente con chi incontrano nel loro cammino, ad arricchire la quotidianità con azioni di gentilezza, che non tolgono ma generano nuove prospettive non solo di relazione ma anche di meraviglia verso se stesse.
«La gentilezza è una forma di eleganza.
La migliore che io conosca.
E c’è ancora gente che la confonde con la debolezza»R. Rigoni